L’ossessione per lo strumento

Due storie alla base di questo post.

Per cominciare, qualche giorno fa ho avuto modo di prendere in mano una Contax III di poco prima della guerra, il caro ricordo di famiglia di un’amica. Una volta superata la comprensibile emozione, decido di avvicinarla agli occhi e di guardare nel mirino… e vengo preso dal panico! Ma come cavolo facevano questi a scattare qualcosa guardando da poco più di uno spioncino? OK, c’è il telemetro, che bello… ma a mala pena riesco a vedere una qualche immagine, figurarsi combinare gli sdoppiamenti nella finestrella del fuoco! E io che mi ero dannato a studiare le possibili differenze di dimensioni tra il mirino digitale della X-T1 e quello ottico della X-Pro2, chiedendomi se quest’ultimo non fosse troppo piccolo (sarà almeno tre o quattro volte più grande e luminoso di quello di questa vecchia gloria!).

Seconda storia, andiamo su Facebook. In uno dei gruppi di fotografia a cui sono iscritto, un utente si chiede come mai in tanti nelle discussioni comuni – professionisti compresi – facciano domande sempre più particolareggiate su questo o quel minimo miglioramento tecnico nei modelli presenti sul mercato: quantità di punti di autofocus, presenza o meno di una levetta di selezione aggiuntiva, schermo touch o non schermo touch e basculante o non basculante… Sulle prime, come tanti, penso che in fondo è diritto di tutti porre le domande che vogliono, ma poi mi fermo a riflettere non tanto sulle motivazioni degli utenti criticati, quanto su quelle dell’utente che si è posto questo interrogativo.

E penso che, forse, ha ragione lui.

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Le foto degli altri

Vi voglio parlare di una cosa che mi è successa qualche giorno fa.

Dovevo andare dal carrozziere per una riparazione all’auto, ero di fretta, piuttosto seccato per la spesa che dovevo sostenere e, insomma, per una volta avevo violato la mia regola d’oro: ero uscito di casa senza la mia macchina fotografica. Naturalmente, sulla via del ritorno verso la metropolitana (rinfrancato anche dal fatto che la spesa in questione era meno di quanto mi aspettassi…) mi trovo di fronte ad una serie di “scatti possibili” che con la macchina fotografica avrei provato a catturare e che usando il telefonino proprio non sarebbero venuti come avrei voluto. A quel punto ho fatto quello che faccio sempre in questi frangenti, ossia mi accontento di “scattare” foto immaginarie cercando di supporre come avrei potuto riprendere una determinata scena o un determinato angolo di strada.

Poi, arrivato alla stazione, vedo due ragazze che armeggiano con le loro macchine fotografiche. Inquadrano… boh, ancora oggi non lo so con certezza cosa stessero inquadrando. Alberi, i cavi del tram, un paio di autobus fermi sul piazzale antistante. Forse qualche passante. Di certo, niente di “usuale” o turistico (stavano dando le spalle sia alla Piramide Cestia che a Porta San Paolo). Di certo, però, lo stavano facendo con intenzione e consapevolezza, fermandosi ogni tanto a parlare tra di loro, mostrandosi i rispettivi scatti e poi riprendendo a fotografare.

Insomma, stavano facendo qualcosa di interessante. E così, visto che c’ero, mi sono unito a loro.

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Dalla ricerca della realtà alla ricerca nella realtà

Michele Smargiassi è un giornalista di Repubblica, specializzato nei temi relativi alla storia e alla teoria della fotografia. Chi si interessa di queste cose conosce bene il suo blog e, per quanto possano piacere o meno le sue posizioni, il suo “Fotocrazia” è comunque un punto di riferimento per il settore.

Ultimamente, ha scritto un nuovo e stimolante intervento all’interno di una serie di riflessioni concettuali piuttosto elaborate sull’essenza stessa del fenomeno fotografico, distinguendo tra le posizioni più legate ad un rapporto diretto di quest’ultimo con la realtà e quelle invece “post-moderne” che slegano la foto dall’idea stessa di verità, considerandola invece una rappresentazione accettata come “reale” solo sulla base di una convenzione sociale, storica e culturale.

E già qui sento che vi sto perdendo, perché pure io ho fatto una certa fatica a seguire queste dotte disquisizioni su di un’attività che, bene o male, ognuno di noi ormai fa ogni giorno o quasi: scattare una qualsiasi foto, dal progetto artistico al selfie scemo con gli amici o alla foto dell’aperitivo da mettere su Instagram.

Sono poi così utili tutte queste dissertazioni, a metà tra la filosofia e la storia dell’arte?

Cavoli, sì che lo sono.

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Lo sono perché alla fin fine, se fai fotografia non dico seriamente ma almeno consapevolmente, qulche domanda bene o male ti viene. Il momento Will Coyote in cui tiri fuori un cartello con su scritto “In nome del Cielo, che cosa sto facendo?” mentre te ne stai lì a provocare una nuova frana di immagini ce l’hai, eccome.

Più che altro, ti chiedi: ma con tutte le manipolazioni, le caratteristiche del sensore, le scelte di composizione e ripresa che faccio prima, durante e dopo (quanto dettagliato voglio lo sfondo, quanto luminoso faccio questo o quel dettaglio, questa foto la tengo a colori o le metto un filtro per passarla in bianco e nero…), io che cosa sto riproducendo? Che c’entra tutto questo mio combinato (talvolta scombinato) disposto di scelte con la realtà?

A mio parere c’entra, eccome, ed è quello che in finale distingue la fotografia dal disegno o anche dal racconto, suoi parenti stretti.

In finale, io posso disegnare o scrivere anche di cose che non esistono materialmente. Anzi, il più delle volte è esattamente questo quello che accade (a tutti i miei amici tolkieniani: mi dispiace, la Terra di Mezzo non esiste e il nostro JRR non c’è mai stato… purtroppo…).

La fotografia, no, questo lusso non se lo può permettere. Anche lo scatto più astratto deve avere un supporto reale, anche quando lo vuole tradire e vuole trasformare una tenda da salotto nella rappresentazione dell’incapacità dello sguardo di afferrrare l’essenza delle cose o suggerire lo squallore dei tempi moderni mostrando la tristezza di uno sfasciacarrozze del Minnesota. Perché quella tenda da salotto e quello sfasciacarrozze esistono comunque materialmente, anche quando ne stravolgiamo completamente la percezione.

Tuttavia, la fotografia non è la realtà, perché la vediamo rappresentata da un triplice filtro che distorce ogni cosa: quello della macchina, quello del fotografo e anche quello di noi spettatori.

Mi viene allora in mente, per paradosso, che forse la fotografia è la più realista delle arti surrealiste, proprio perché ricerca qualcosa nel reale sapendo di non poter fare a meno di tradirlo. E non sorprende sapere che uno dei più grandi fotografi della storia, Hentri Cartier-Bresson (il cui nome esce fuori in qualsiasi discussione sulla fotografia, un po’ come Leopardi o Montale alla maturità) abbia iniziato il suo percorso artistico proprio all’interno di questa corrente.

Il surrealismo non rinnega il reale, bensì lo usa per svelarne l’illusione nella percezione e anche per ritovarvi nuovi significati, assonanze e analogie. La fotografia, dunque, si slega dal suo oggetto materiale e da “ricerca della realtà” si trasforma in “ricerca nella realtà”, un tentativo – talvolta disperato, spesso azzardato – di penetrarne le meccaniche più nascoste, magari per estrapolare nuovi significati da piccoli frammenti di tempo e spazio apparentemente casuali.

Se considerata da questo punto di vista, la fotografia riveste un nuovo interesse e si libera dall’elemento puramente estetico del “bello scatto” o documentario del “reportage approfondito”. Quando ad esempio vediamo una foto di una bella ragazza che passa davanti a una mendicante (scatto banalissimo e un po’ triste, ma rende l’idea) noi cogliamo il contrasto e lo mettiamo in rapporto ad un messaggio di carattere esistenziale. Se vediamo la bici che passa per la strada alla fine delle scale di Cartier-Bresson cogliamo nella linea di discesa a spirale echi della teoria della sezione aurea o perfino della sequenza di Fibonacci. Quando Capa ci fa vedere il miliziano spagnolo che cade colpito da una pallottola franchista ci vuole lanciare un messaggio sulla brutalità della guerra civile.

Tutto ciò naturalmente ha un rischio (oltre ad essere un filino più difficile dello scattare a caso in mezzo ad un marciapiede affollato perché fa tanto “street photography alla newyorkese” o scattare stanze vuote con solo una sedia ed un quadro di farfalle morte perché fa tanto “nuova fotografia concettuale scandinava”): nella tua mente di fotografo quello scatto può rappresentare un determinato significato, ma in quella di chi ti guarda possono agire forze diverse che produrranno significati diversi. In un certo senso il rapporto diviene più paritario, perché il senso dell’immagine si apre e ci metti tanto dentro tu come fotografo quanto fa chi vedrà la foto come spettatore. E a non tutti i fotografi questo rapporto improvvisamente così “paritario” piace poi tanto…

Certo, non tutta la fotografia fa questo. Ma forse questo è quello che fa o almeno prova a fare la buona fotografia, anche e soprattutto quando si mette in testa di “riprodurre le cose così come sono”.

Perché, spesso, neanche le cose stesse sanno come sono, e a chi sa leggerla questa scomoda verità del non sapere (il nome Socrate vi dice qualcosa, signori?) la fotografia riesce a rappresentarla con sconcertante chiarezza.